Israele è molto più di un viaggio. Israele è una sfida continua e sempre positiva per la mente, per il cuore e per il corpo: storia e geografia da comprendere, fedi da capire, sapori da provare. È tutto e il contrario di tutto: Gerusalemme e Tel Aviv, l’acqua delle oasi e l’arsura del deserto, suk e mall, ortodossia e laicità, serietà e divertimento, le antiche mura della città santa e la barriera di 800 chilometri che divide Israele dalla Palestina, il passo lento dei pellegrini lungo la Via Dolorosa e i monopattini elettrici che sfrecciano velocissimi nelle strade di Tel Aviv, il Muro del Pianto e la Cupola della Roccia, baracche di beduini e grattacieli, ebrei, cristiani e arabi, la calma del Mar Morto e le onde del Mediterraneo. Per questo ho deciso di raccontarlo giorno per giorno.
Day 1, un venerdì di settembre: l’arrivo a Gerusalemme e l’inizio dello Shabbat
Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv: siamo finalmente in Israele. Ho letto di tutto sulle trafile al controllo dei passaporti, ma in realtà non abbiamo nessun problema. Impieghiamo giusto dieci minuti. Ci viene rilasciato il tagliandino blu che qui vale come il timbro apposto normalmente altrove e che certifica il nostro status di turisti. Un accorgimento, quello del Visa blu, che Israele adotta per evitare che il turista abbia problemi in altri Paesi a causa del timbro israeliano. Scoprirò in seguito, chiacchierando con un’armena originaria di Jaffa ma che vive in Canada, conosciuta sulla spiaggia di Tel Aviv, che nel momento in cui si prenota un volo per Israele partono i controlli. Lei mi dirà: “Sanno tutto del tuo backgroud”. Usa proprio la parola “background”: evidentemente i nostri, quello di un medico e quello di una giornalista, non destano preoccupazioni. Mentre aspettiamo i bagagli mi collego al wi-fi dell’aeroporto, fotografo i due Visa blu e li trasmetto all’Abraham Hostel, l’ostello in cui soggiorneremo che, al momento della prenotazione, crea per te una casella dedicata, in cui trasmettere man mano i documenti per agevolare il check in. Hanno già i passaporti, con questo invio la pratica è completata.
Arrivare in Israele di venerdì significa organizzarsi senza mezzi pubblici perché nel primo pomeriggio tutto si ferma per un giorno intero: niente autobus e niente treno per chi arriva di Shabbat, che inizia nel tardo pomeriggio di venerdì e termina il giorno dopo (ma prima che i mezzi tornino a funzionare servono almeno altre tre ore).
Prima di uscire prelevo con il bancomat 600 shekel per le prime necessità tra cui
gli sherut, taxi collettivi guidati da arabi, che per 67 shekel vi portano direttamente a destinazione. Non preoccupatevi per l’attesa. Soprattutto di venerdì si riempiono in fretta perché i turisti hanno poche alternative, quindi è minima. E a ben vedere sono anche più comodi degli altri mezzi visto che lasciano a destinazione. La compagnia ufficiale è Nesher.
Arriviamo in circa un’ora all’Abraham Hostel. Sì, anche se non abbiamo più vent’anni e i tempi dell’Interrail sono lontani, ho scelto questo tipo di sistemazione perché avevo voglia di respirare un’aria diversa, più easy, forse più adatta allo spirito con cui Gerusalemme chiede di essere vissuta. Qui il grande tavolo da biliardo che alla sera è a disposizione deli ospiti nel salone, di mattina funge da isola per frutta, verdura, pane, marmellata e altro ancora. Qui lavi i piatti dopo colazione e se vuoi ti prepari da solo qualcosa di diverso perchè hai tutto quel che serve a disposizione. Ma, soprattutto, conosci persone di tutte le età e di tutte le nazionalità. E puoi anche fare esperienze come la cena di Shabbat o la lezione per la preparazione dell’hummus. Per Gil è la prima volta in ostello e devo dire che l’ha presa bene (anche se ha saputo all’ultimo del nostro alloggio gerosolimitano!).
Usciamo subito dopo aver lasciato i bagagli in camera. Gerusalemme si sta svuotando nella parte nuova. Andiamo a piedi alla città vecchia un po’ per misurare le distanze e prendere confidenza con le strade, ma anche perché i mezzi pubblici non funzionano più. Jaffa Street, che qui tutti chiamano Yafo, è quasi deserta, i tram non ci sono e si cammina in mezzo alla carreggiata. Entriamo nella città vecchia dalla porta di Giaffa, la più famosa.
Raggiungiamo il muro occidentale, il Muro del Pianto, dove gli ebrei ortodossi cominciano a fluire lentamente nella zona più sacra per la loro fede. Il muro è sovrastato da un altro luogo altrettanto sacro, ma per altri: la Cupola della Roccia che splende dorata. È uno dei posti più sacri al mondo per i musulmani.
Tutto questo è il Kotel, il Monte del Tempio, e qui ogni centimetro quadrato di terra è prezioso. Oggi è venerdì per due delle grandi religioni monoteiste, a ognuno il suo posto, al Kotel, nella storia e in Gerusalemme. Ma i soldati ricordano che è e resta una vicinanza armata.
Lo Shabbat inizia il tramonto del venerdì e prosegue per 25 ore. Difficile capire qualcosa nelle litanie, bibbie ovunque, mazzi di menta profumata e mani che si stringono. Tra tanta serietà c’è anche modo di essere bambini nonostante la sacralità del giorno, nonostante i cernecchi che segnano un’appartenenza forte sin da piccoli e nonostante un futuro di studio e di impegno davanti. Due bambini infatti si contendono le caramelle che un anziano offre loro di nascosto e mi strappano un sorriso.
Prima di entrare nella parte dedicata alle donne noto una signora con una tunica bianca che scrive su un foglietto. È la preghiera per il suo Dio da infilare tra le fessure del muro. La incontrerò di nuovo, sotto il muro, mentre si allunga verso l’alto per trovare uno spazio ancora libero, mentre in terra è pieno di foglietti caduti perché scalzati da nuove preghiere e lei vuole che la sua rimanga ben salda tra quelle pietre.
La vedrò anche all’uscita mentre danza per la gioia.
Pure io mi avvicino al muro del pianto e appoggio una mano sulle pietre chiare illuminate dal sole del tramonto. Poi lasciamo questo luogo sacro per i fratelli ebrei e torniamo sui nostri passi. Loro intanto arrivano a decine, coppie con un nugolo di bambini, anziani incurvati sotto il peso degli anni e dello studio, giovani a frotte e gruppi di ragazze. Il vestito è quello della festa, l’abito racconta di diverse provenienze, dall’Europa e dal mondo, pastrani pesanti e neri e vestaglie leggere e bianche, cernecchi, grandi cappelli, barbe più o meno lunghe, in tanti portano gli occhiali da vista. Le donne, sotto copricapi che paiono turbanti, nascondono teste la loro vera capigliatura come chiede la loro religione, mentre le gambe sono coperte fino al ginocchio da lunghe gonne e, sopra, le calze.
Alla sera all’Abraham Hostel c’è la cena di Shabbat, partecipiamo anche noi, con altri ospiti. Iniziamo con l’accensione delle candele e poi condividiamo il pasto con adulti e bambini, coppie e single, indiani, americani, orientali e anche altri italiani che hanno scelto questa sistemazione un po’ informale, ma che permette di fare una bella esperienza, a partire da questa cena.
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