A Tel Aviv gli hotel sono famosi anche per il livello della colazione, tanto che in alcuni il sabato c’è la coda per entrare. Il Prima City Hotel è uno dei migliori da questo punto di vista. Oggi mi dedico a hummus e labne (uno yogurt molto denso condito con olio e spezie), prendo una bella spremuta d’arancia, datteri, albicocche disidratate, omelette e, naturalmente, un croissant perchè certe abitudini sono dure a morire. Poi via in bicicletta in direzione Jaffa, il vecchio porto di Tel Aviv.
Noleggiare le biciclette a Tel Aviv è facilissimo: con la carta di credito mi sono registrata per tre giorni, due tessere sono state abbinate alla mia carta di credito quindi ho selezionato le biciclette e poi via. Il sistema è molto economico perché per i primi trenta minuti non si pagano. E per arrivare a Jaffa ne bastano venti. Pedalare è un piacere sulle piste ciclabili.
Jaffa è stata un antico porto per tanto tempo, già prima di Cristo. Quando la simpatica signora armena, moglie dell’italiano immigrato in Canada che abbiamo conosciuto in spiaggia era una bambina, tutto intorno a Jaffa era una distesa di aranceti, da cui le famose arance esportate ovunque. Oggi gli aranceti hanno lasciato posto alle case e Tel Aviv Jaffa è un’unica municipalità. Perdetevi tra le viette e fate un salto al mercato delle pulci.
Al termine della visita torniamo alla stazione delle bici, inseriamo la carta di credito che viene subito riconosciuta e possiamo scegliere due biciclette.
Pedalando sul lungomare mi sono imbattuta in questa installazione – Beach ball si chiama – piena di significato se pensiamo che è stata realizzata con oggetti di plastica raccolti sulla spiaggia. Ma è stato tanti anni fa, perché ora tutto è pulito e in ordine.
Dopo una settimana di cibo locale per cena faccio una sorpresa a Gil e scelgo un ristorante italiano che tra l’altro è anche kosher: l’insegna spiega il nome: Pankina, è facile da trovare all’angolo tra la Gordon e la Dizengoff. Ordiniamo pesce e dalla cucina esce il souschef per spiegarci quel che, forse, la cameriera israeliana teme di non riuscire a spiegarci (o, forse, teme che non riusciamo a capire). Conosciamo così questo ragazzo di 22 anni, italiano di Roma, incaricato di dirci che il pesce scelto è terminato e che ci propone un’ottima alternativa. Torna dopo un po’, per sapere se andava tutto bene. Così si chiacchiera qualche minuto insieme: è arrivato dall’Italia sei anni fa per via del lavoro del padre.
Per lui non è stato semplicissimo catapultarsi a 16 anni in un liceo in cui si parlava solo ebraico o inglese e in cui un italiano era una rarità. Oggi parla, legge e scrive l’ebraico, ha migliorato il suo inglese e medita di imparare il francese. Ci spiega come vivere qui sia bello ma anche impegnativo. Quando ci salutiamo e dice “Ah, io sono Natan” intuisco le sue origini ebraiche. Gli chiedo conferma della mia intuizione e gli domando perché la sua famiglia abbia fatto l’Aliyah, con il timore che mi risponda “Non ci sentivamo più al sicuro”. La risposta, invece, è piena di poesia: “I miei genitori hanno deciso di realizzare un sogno che cullavano sin da giovani”.
Dopo cena passeggiata serale su Dizengoff Street (primo sindaco della città, a casa sua Ben Gurion ha annunciato la nascita dello stato di Israele) fa capire bene perché Tel Aviv, fondata nel 1906, sia una città così giovane e vitale. Il nome, tra l’altro, significa Collina di Primavera.
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